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Mayotte, l’impossibilità di un’isola

L’isola di Mayotte, piccolo lembo di terra a nord del Madagascar, di fronte al Mozambico e alla Tanzania, è il territorio più lontano, più povero e sconosciuto dell’Unione Europea. 101esimo dipartimento francese dal 2011 è luogo d’arrivo di migliaia di migranti che tentano di entrare in territorio europeo evitando l’inferno libico e i respingimenti violenti delle polizie di confine. Nel corso degli anni l’isola si è quindi trasformata in una trappola in cui i migranti si sono trovati bloccati senza possibilità di procedere nel loro viaggio. La Francia infatti ha deciso di derogare sul territorio di Mayotte il Codice di entrata e di soggiorno per gli stranieri previsto dalla legislazione dello Stato, con il risultato che oltre la maggioranza della popolazione è straniera e vive in condizione di clandestinità in immense baraccopoli intorno alla capitale sotto la costante minaccia dell’espulsione verso le isole Comore. Per avere un’idea della situazione, è interessante notare che su 43.565 migranti trattenuti nei centri di detenzione per migranti su tutto il territorio francese nel 2022, ben 27.643 erano nell’isola di Mayotte, oltre il 60% dei detenuti a livello nazionale.

Nel 2023 il governo di Parigi ha deciso di lanciare una dura azione di polizia, Wambushu (ripresa), per abbattere le baracche e espellere i clandestini inviando 1.800 poliziotti per rafforzare le forze dell’ordine nell’isola.

Il testo dello scrittore e filosofo Dénètem Touam Bonache che presentiamo è una interessante riflessione post coloniale sulla realtà di questa piccola isola sospesa nell’Oceano indiano ed è tratto dal libro Fugitive, Where Are You Running?

Grazie a lundimatin per averne autorizzato la pubblicazione.

traduzione di William Bonapace

Vite da salvare o disuguaglianze da riconoscere? Etica dei sopravvissuti alle intercettazioni della Guardia Costiera tunisina

di Luca Ramello

«Baba samahni» (in tunisino «Lasciateci passare», lett. «Papà perdonami») dicono coloro che tentano di attraversare. «Darouri» (trad. «siamo obbligati») risponde la Guardia Nazionale. È questa la tipica scena delle intercettazioni violente al largo delle coste tunisine, quando le persone sulle imbarcazioni non autorizzate tentano di lasciare il Paese e resistono all’arresto, rischiando naufragio e morte.

Nei primi cinque mesi del 2023, sono in media 4 i dispersi e i morti documentati quotidianamente dal Forum Tunisino per i Diritti Economici e Sociali.

Chiamata alla montagna in difesa dei diritti

Appello Colle del Lys 2 luglio 2023

Cutro insegna.

Acque territoriali greche 600 morti.
Quando non si vuole salvare si lascia morire. Vi è una chiara responsabilità, una premeditazione, che attraversa le frontiere europee e che radica nelle norme, nel geometrico progetto di “clandestinizzare”, nei disegni di confinamento, nella esteriorizzazione delle pratiche di sbarramento dei confini, nelle procedure accelerate in frontiera. Il favoreggiamento della morte cercata è coerente ai disegni di abbassare gli standard (sic!) dei paesi terzi ritenuti sicuri, di trasferimento in paesi di transito, del rinvio in quegli stessi paesi di origine ritenuti sicuri delle persone in cammino, della militarizzazione dei confini. Non esitiamo a definire stragista questa volontà ipocrita e assassina, non solo di migliaia di persone ma anche dei principi, dei valori, che hanno dato forma alle nostre Costituzioni.
I morti nelle acque territoriali greche, quelli di Cutro e tutti quelli di cui non abbiamo nome e che costellano le rotte migratorie sono il risultato di una progettualità demagogica e criminale di rendere invisibili, nella vita e nella morte, gli scarti e gli irriducibili a questo nostro modello di sviluppo. Togliere il diritto non a una terra ma alla terra stessa è la più radicale violazione dei diritti umani. Lasciare al mare, al deserto, alla montagna il compito di risolvere il problema è una logica di sterminio , già conosciuta nelle sue grammatiche nel corso della storia.
Poi rimangono il silenzio, le lacrime e la rabbia. Ogni nostro sforzo sarà contro questa normalizzazione assassina. Non 600 migranti morti, ma 600 persone, con nome e cognome e vita, che vogliamo ricordare e che sono specchio di una normalità disumana.

It’s now clear that the shipwrek outside Pylos, Greece, is one of the largest sea tragedies in Europe in modern times…

Il dettagliato resoconto di Aegean Boat Report .

Assassinati.

Sul naufragio avvenuto il 14 giugno al largo delle coste greche

Si torna a morire alla frontiera alpina nord occidentale.

Nove migranti, tutti magrebini e subsahariani, il 31 maggio sono stati soccorsi in alta quota al confine tra l’Italia e la Francia, e uno di questi ha dichiarato di essere caduto inciampando e di essersi trovato vicino a un cadavere di cui ha saputo descrivere l’abbigliamento.

Sono passati sei giorni e non vi è notizia ufficiale del ritrovamento del cadavere. Un silenzio inquietante che ricorda altri silenzi che condannano all’invisibilità le persone in cammino, non solo in vita ma anche dopo la morte.

Non è la montagna che uccide ma il sistema di frontiera; i morti nel Mediterraneo, a Cutro, a Ventimiglia e sulle Alpi sono il risultato di una stessa pianificata politica dell’orrore.

Non siamo di fronte ad un fatto tragico ed eccezionale, ma ad una concreta eventualità che si ripropone ogni giorno ad ogni ‘game’.

Solo l’intervento plurale e quotidiano di solidali lungo le rotte, in mare, in montagna, ai confini permette di limitare le vittime.

Nel 2023 è repentinamente cambiata la composizione dei flussi, composti non più in prevalenza da persone provenienti dalla rotta balcanica ma dal Mediterraneo centrale e da aree subsahariane. I  numeri dei passaggi sono in crescita, così come le vulnerabilità.

Vediamo passare donne, famiglie, bambini, persone che hanno attraversato il deserto, subito tortura, violenza sessuale in Libia e in Tunisia. Si tratta molto spesso di persone che non conoscono la montagna: sono gruppi dalle eterogenee provenienze e differenti radici storico-culturali. Ad accomunarli è il desiderio di partire, lasciare il più presto possibile l’inferno dietro di sé o cercare altro per la propria famiglia e per sé.

Al contempo la militarizzazione è ostentata lungo tutto l’arco alpino transfrontaliero. I respingimenti sono aumentati in modo significativo, sigillando la frontiera ai più deboli e vulnerati. Anche i nuovi decreti si inscrivono in questo quadro di clandestinità forzata, precarizzazione delle esistenze e di costante messa a rischio della vita. Per le persone in cammino rivolgersi a smugglers o scommettere sui cammini più pericolosi, senza neanche quell’esperienza che si maturava lungo la rotta balcanica, diviene una scelta forzata. “Terribile è che le cose siano come sono” e spesso constatiamo che nonostante gli sforzi non ce la facciamo a resistere a una disumanità sistemica.

Solo l’osservazione di quanto accade, l’analisi degli eventi e il mutuo aiuto tra presidi solidali a livello nazionale può contrastare questa necropolitica, demagogica quanto tragica.

I poeti e i veleni

Lukavac è una cittadina della BosniaErzegovina nord orientale, nel Cantone di Tuzla, al centro di una vasta area industriale dove operano diverse aziende nazionali e multinazionali. La Sisecam Soda, turca, che produce carbonato di sodio, la FCL Lukavac, impegnata nella produzione di cemento e calce, la Gikil che produce coke, benzene, catrame, solfato d’ammonio e altre sostanze.

Associazionismi e reti delle donne nella BosniaErzegovina contemporanea

Quali sono le conseguenze degli enormi investimenti del dopoguerra che determinarono la nascita di tante ong? Quale impatto hanno avuto sulla società bosniaca? Già all’indomani degli accordi di Dayton si sviluppò un ampio dibattito sugli effetti distorsivi e di sostituzione ai servizi pubblici (Duffield, 1996,2001) da parte dei “progetti” internazionali, e col tempo a questi elementi che hanno strutturato la società bosniaca del dopoguerra altri se ne sono aggiunti. 

Voci del verbo andare

Il titolo italiano del romanzo di Jenny Erpenbeck ci pare appropriato per descrivere le moltissime voci di migrazione che è facile ascoltare nelle strade di Bosnia, oggi.

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