L’isola di Mayotte, piccolo lembo di terra a nord del Madagascar, di fronte al Mozambico e alla Tanzania, è il territorio più lontano, più povero e sconosciuto dell’Unione Europea. 101esimo dipartimento francese dal 2011 è luogo d’arrivo di migliaia di migranti che tentano di entrare in territorio europeo evitando l’inferno libico e i respingimenti violenti delle polizie di confine. Nel corso degli anni l’isola si è quindi trasformata in una trappola in cui i migranti si sono trovati bloccati senza possibilità di procedere nel loro viaggio. La Francia infatti ha deciso di derogare sul territorio di Mayotte il Codice di entrata e di soggiorno per gli stranieri previsto dalla legislazione dello Stato, con il risultato che oltre la maggioranza della popolazione è straniera e vive in condizione di clandestinità in immense baraccopoli intorno alla capitale sotto la costante minaccia dell’espulsione verso le isole Comore. Per avere un’idea della situazione, è interessante notare che su 43.565 migranti trattenuti nei centri di detenzione per migranti su tutto il territorio francese nel 2022, ben 27.643 erano nell’isola di Mayotte, oltre il 60% dei detenuti a livello nazionale.

Nel 2023 il governo di Parigi ha deciso di lanciare una dura azione di polizia, Wambushu (ripresa), per abbattere le baracche e espellere i clandestini inviando 1.800 poliziotti per rafforzare le forze dell’ordine nell’isola.

Il testo dello scrittore e filosofo Dénètem Touam Bonache che presentiamo è una interessante riflessione post coloniale sulla realtà di questa piccola isola sospesa nell’Oceano indiano ed è tratto dal libro Fugitive, Where Are You Running?

Grazie a lundimatin per averne autorizzato la pubblicazione.

traduzione di William Bonapace

L’isola non è un luogo isolato, ogni isola fa parte di un arcipelago
Edward Glissant.

“La prefettura ha reso noto che oggi sette migranti clandestini sono annegati nell’affondamento del peschereccio che li trasportava al loro arrivo nella laguna di Mayotte”.   Una notizia tra le altre, incastrata tra lo scasso di una casa e l’uscita di strada di un camion. Ci si abitua a tutto, compreso il ritorno ciclico dei morti all’ora di colazione. “Inshallah!» …, continuiamo ad ascoltare distrattamente la radio mentre sorseggiamo il resto della nostra tazza di caffè, come se questi sette morti, non più di tutti quelli che li hanno preceduti, non contassero. Secondo le stime dell’Ong Migreurop infatti dall’introduzione nel 1995 del visto Balladur tra Mayotte e l’Unione delle Comore, i morti sono stati oltre 15.000

Mayotte rimane ancora oggi nel punto cieco della Francia: un territorio assente dagli scaffali delle librerie, degli schermi cinematografici e televisivi, dalle preoccupazioni e dall’immaginazione della Francia. Lontano dagli occhi, lontano dal cuore… Il meccanismo coloniale opera a Mayotte come una censura tettonica che spacca, spartisce, cancella un paesaggio dell’arcipelago – quello delle Comore – prima di rifrangersi nella psiche del “Mahorais”, e renderlo suo stesso nemico.

“CEDI ALLA TENTAZIONE DI MAYOTTE…”

Se Mayotte è così poco conosciuta in Francia, è probabilmente perché il “Mahorais”, in quanto esemplare umano distinto dal “Comorian”, non esiste ancora; si sta modellando, da immagini, racconti, una riscrittura della storia, con l’obiettivo di mettere in scena e far esistere agli occhi del mondo un “popolo mahorese”. Ciò che giustifica la spartizione dell’arcipelago delle Comore a vantaggio della Francia. Alle fiere internazionali del turismo, le hostess Mahoran augurano Karibu ai tour operator e ai potenziali clienti. I loro volantini ti invitano all’esotismo: “Cedi alla tentazione di Mayotte, l’isola dei profumi, l’isola dei maki… La sua laguna offre un’area dove delfini, balene e tartarughe marine amano navigare. Vieni anche a conoscere la popolazione indigena: i Mahorais hanno un’anima allegra, lì tutto è ancora autentico». Il “nativo” delle guide turistiche è la nuova figura del “buon selvaggio”: un essere gentile e spontaneo, appena entrato nella storia. L’adesione dei “Mahorais” allo status di francese “dominato” procede da una “naturalizzazione” di questi ultimi, a una riduzione a natura. Nelle agenzie pubblicitarie e negli uffici di design di Mamoudzou o Parigi, i “Metros” (francesi, ndt) stanno lavorando per rielaborare l’immagine, il design e il packaging di Mayotte. Si tratta di definire quest’isola, non da una cultura che, appunto, è arcipelago, ma da una natura presentata come edenica. Una natura fuori dal tempo, perché slegata dalla storia millenaria di una civiltà del dhow (tradizionale barca a vela araba acclimatata dagli abitanti dell’arcipelago). La promozione di un'”isola di Mayotte nella laguna” contribuisce a cancellare e nascondere il resto dell’arcipelago. La scelta del logo della nuova compagnia aerea di Mayotte “EWA”, il “passaggio a S” (lungo corridoio tortuoso attraverso la barriera corallina), è abbastanza rivelatrice da questo punto di vista: è il punto preferito dai subacquei wazungu (bianchi), che ora rappresenteranno un’intera isola. Questa “S” non è un simbolo, ma un segno volto a garantire il diritto d’autore francese su uno spazio epurato della sua storia e della sua cultura: un’etichetta che dovrebbe garantire la qualità di un prodotto turistico globalizzato.

Il quadro sarebbe idilliaco se ci fossero purtroppo tutte queste creature esogene all’ecosistema lagunare: i “kwasa kwasa” (piccole imbarcazioni usate dai migranti per raggiungere l’isola, ndt). Sembra una delle dieci piaghe che si abbatterono sull’Egitto per costringere il Faraone a liberare il popolo di Mosè: le invasioni di rane, locuste, mosche e soprattutto le acque del fiume trasformate in sangue. Queste barche “migranti” provenienti da Anjouan possono anche essere abbordate dalla marina francese, affondare in acque profonde, andare alla deriva alla cieca nel Canale di Mozambico, arrossare le acque della laguna con il loro schianto, sempre nuove ondate di “kwasa” si rianimano e ripartono per attaccare “l’Eldorado”. Sfuggire dalle pattuglie della PAF (Air and Border Police), della gendarmeria e della dogana, dalle motovedette, dagli elicotteri e dalle stazioni radar d’avanguardia della Marina francese vuol dire correre dei rischi: navigare di notte, senza luce, a volte spegnendo i motori, sfidando le raffiche e la nebbia; “Inch Allah”, giochiamo il nostro destino alla roulette russa. “La canoa si è ribaltata su una scogliera, vicino alla costa di Kani-Keli. Nove persone sono state uccise, di cui cinque neonati”, i dispacci si susseguono e si somigliano, incrinando sempre più il sogno di una Mayotte vergine e innocente.

I navigatori arabi battezzarono quest’isola “al mawt”, “morte”, per via degli innumerevoli naufragi causati dalla formidabile fascia corallina che protegge l’isola. Oggi, queste scogliere affilate sono abbinate a un confine invisibile che è tanto più efficace in quanto virtuale. Una zona di controllo in tempo reale – espandibile a piacere grazie all’unione di forze navali e tecnologie di tracciamento (radar, immagini satellitari) – che fa di Mayotte una riserva naturale ad alta tecnologia dedicata alla protezione delle specie autoctone. In tal modo la tutela del “diritto alla vita” di alcuni (nazionali) espone alla morte altri (stranieri).

“MAYOTTE CHANNEL GATEWAY”

A Mayotte, il porto di Longoni è incastonato in un’ampia e maestosa baia delimitata dall’intreccio delle mangrovie, dalle verdi colline della punta settentrionale e dall’invisibile cintura di barriere coralline. La baia di Longoni ha sempre offerto rifugio alle navi di passaggio. “Ulingoni” , questa radice bantu designa il “luogo di sosta” e quindi ci rimanda alla storia precoloniale di Mayotte, a questa circolazione millenaria di sambuchi e canoe a bilanciere da cui è nata non solo la società dell’arcipelago delle Comore ma anche quella che viene chiamata la civiltà “swahili” (dall’arabo “swahil”, “riva”): una rete di città-stato – Lamu, Zanzibar, Mogadiscio, ecc. – che fiancheggiavano le coste dell’Africa orientale e che costituivano tante tappe sulla strada per la penisola arabica, l’India, la Cina o anche la Malesia. È a questa Africa swahili, nel cuore della globalizzazione commerciale e culturale dell’Oceano Indiano – il sistema-mondo afro-asiatico di cui l’Europa era allora solo una periferia – che comprendeva i porti dell’arcipelago delle Comore e del nord-ovest del Madagascar. Come le società caraibiche, anche i mondi swahili sono nati dall’imprevedibile, dalla fecondazione reciproca di elementi culturali e da popoli infinitamente diversi: somali, bantu, persiani, yemeniti, austronesiani, portoghesi, rifugiati di ogni tipo, tutti attori di un arcipelago creativo.

Nel 2013 Longoni è stato ribattezzato “Mayotte Channel Gateway”: non è più un porto ma un “Hub”, una piattaforma logistica. Questo dispositivo completa il processo di “containerizzazione” della vita Mahoran: se una portacontainer o una superpetroliera arriva in ritardo, si scatena il panico, la paura della penuria e si formano interminabili file indiane davanti agli altari della modernità quali sono il distributore di benzina e il supermercato. Con la dipartimentalizzazione, e l’aumento esponenziale delle importazioni che essa comporta, al muro del visto Balladur si aggiunge ora il mormorio assordante della merce: mi relaziono al mondo solo nella misura in cui posso consumarlo. La creazione a Mayotte di un’isola fittizia di prosperità porta necessariamente al rafforzamento della spartizione dell’arcipelago, all’irrigidimento del confine, all’emorragia delle forze vive delle altre isole a vantaggio dell’Eldorado Mahoran, e quindi al crescente rifiuto di coloro, i “Comoriani”, che minacciano i nostri privilegi di consumatori francesi. Una delle prime “censure” con cui ci troviamo di fronte a Mayotte è questa paradossale faglia geologica che separa il 101esimo dipartimento dal suo hinterland – il Canale del Mozambico – un divario che si allarga man mano che si integra nei circuiti commerciali francesi: “Il mondo qui si conta in container, è solo quello, e questo è forse il miglior filtro possibile. »  (Edouard Glissant). I fuori strada 4×4, le berline, gli schermi al plasma, i contenitori di birra… tutto arriva via Longoni; magico cordone ombelicale che lega Mayotte alla Metropoli slegandola da tutti i legami familiari, culturali, storici che l’hanno sempre unita alle altre isole. La collocazione sotto il DOM presuppone sempre un restringimento dell’orizzonte e una “cartografia mutilata”: “Per rafforzare la loro dipendenza nei confronti della Francia, lo Stato sta bloccando le relazioni che i territori d’oltremare intrattengono ancora con i paesi vicini” (F. Vergès, Il ventre delle donne, p.50).

Archivio coloniale su “l’arcipelago unico delle Comore”

“È ragionevole immaginare che una parte dell’arcipelago rimanga indipendente e che un’isola (…) mantenga uno status diverso? (…) Non dobbiamo, in occasione dell’indipendenza di un territorio, proporre di rompere l’unità di quello che è sempre stato l’unico arcipelago delle Comore». Fu il 26 ottobre 1974, durante un’intervista a Le Monde, che Valéry Giscard d’Estaing, allora Presidente della Repubblica, fece questa dichiarazione. Due mesi dopo, durante una prima consultazione referendaria, il 93% della popolazione del Territorio d’Oltremare delle Comore – comprese le isole di Ngazidja, Moheli, Anjouan e Mayotte – ha votato per l’indipendenza. Ma nel giugno 1975, sotto la pressione di varie lobby (élite mahorese, Action Française, pressioni americane legate alla Guerra Fredda, ecc.), il governo francese fece un’inversione radicale e decise di indire una nuova consultazione (isola per isola, in violazione di diritto internazionale) che, nel febbraio 1976, diede una parvenza di legittimità all’attaccamento di Mayotte alla Francia. L’ONU e l’Unione Africana non hanno mai riconosciuto la sovranità francese su quest’isola.

A mano a mano che la partizione dell’arcipelago si indurisce, il termine “Mayotte” diventa un guscio vuoto ma tagliente: un’astrazione in senso forte poiché ormai concepiamo attraverso questa parola solo una scissione, un territorio astratto dal suo entroterra – le altre isole e il Madagascar. Così Maore non è altro che cielo e laguna, non ha più né arcipelago né continente. Quante volte sentiamo in bocca a “Mahorais” o “Metros (i francesi, ndt)” l’espressione per cui “Mayotte, non è l’Africa, è la Francia!”.  

Bisogna riconoscere che ” i Mahorais non conoscono la loro storia; i nostri antenati i Galli è quello che si insegna nelle scuole. Quindi non hanno più alcun fondamento storico, non sanno cosa li leghi alle altre Comore, ai malgasci, all’Africa. Come ti aspetti che queste persone siano commosse dal destino dei loro vicini. È un popolo amputato dal suo orizzonte, a cui abbiamo tolto ogni visione, sia nel tempo che nello spazio. Guarda solo nel piatto, vota e stai zitto!  Questo è ciò che insegnano loro i nostri funzionari eletti…” spiega Ali Hafidou, membro del collettivo Mahoran Suluhu (“riconciliazione”). Si tratta quindi di un’isola galleggiante, di una piattaforma offshore, di una biosfera autarchica che vorrebbero fosse perfettamente sigillata, senza crepe o infiltrazioni.

“Data l’importanza del flusso migratorio, sono molte le morti da compiangere nelle acque di Mayotte”, spiega un presentatore televisivo. Ma un “flusso migratorio” non ha volto, non muore, quindi perché dovrei commuovermi? Per l’astrazione dell’umano che opera, l’uso di questo tipo di espressione costituisce il mezzo migliore per censurare le nostre emozioni nei confronti del prossimo. Eufemismi, amalgami di parole, litanie di cifre e statistiche, tutta una serie di elementi del discorso permettono di costruire la realtà sociale secondo gli interessi del dominante, oscurando tutto ciò che potrebbe mettere in discussione la realtà simulata che si cerca di imporre su di noi. L’inquadratura di una foto costruisce la percezione di ciò che viene fotografato: i termini “straniero”, “francese di Mayotte”, “Comore”, “migrante”, “dipartimento francese”, ecc. formano una rete flessibile e modulare che, subdolamente, impone una cornice al nostro sguardo. Questa griglia percettiva, assegnando all’altro un’identità infame – quella del “clandestino” che vive necessariamente all’ombra del delitto – ci rinchiude in un’autoctonia fantasticata. Ciò è tanto più evidente in queste isole dove la parola che designa lo straniero, “Mdjeni” si riferisce innanzitutto all’ospitalità offerta al rifugiato poiché significa “ospite”. E infatti, come ci ricordano l’autore Soeuf Elbadawi e l’antropologo Damir Ben Ali, questa terra fatta di basalto e zolfo era originariamente popolata da successive ondate di profughi dalle origini più diverse (Bantous, Persiani, Yemeniti, Malesi, Portoghesi, ecc.), costretti a intrecciare le loro linee di fuga attorno a un banchetto: il cerchio dello shungu (radice bantu: “riso fumante”).

«(…) i comoriani di Mayotte hanno preso l’abitudine di pensare a ‘Mayotte e alle Comore come un’unità e a vedere la Réunion come un’isola sorella. (…) Così, le Comoriane lasciandosi definire dallo sguardo e dalle categorie del fuori si rendono complici e vittime consenzienti del proprio annientamento».  [ Les Comores existent-elles ?, Isabelle Mohamed, revue Maadzishi N°3, ed. Komedit, Moroni, 2000.]

Sotto l’invisibile cupola di Mayotte si sente ancora il richiamo dei muezzin e gli incantesimi dei fundi wa madjinni (i maestri dei jinn), ma soprattutto si celebra il culto del mercantile, questi riti attraverso i quali i melanesiani cercarono di impadronirsi delle ricchezze occidentali imitando alla meglio i gesti e le posture di radiotelegrafisti, capitani di lungo corso, “i maghi bianchi”. Pelle comoriana, maschere francesi, il “Mahorais” ora vuole essere “nativo”, non uno di quegli stranieri che sbarcano a kwassa dalla lontana isola di Anjouan… a 70 km di distanza. In Le discours antillais, Glissant ha analizzato perfettamente i meccanismi del DOM: si tratta di convertire fondi pubblici – sussidi, dotazioni, stipendi e premi dei dipendenti pubblici, ecc. – in profitti privati ​​a vantaggio anzitutto dei grandi gruppi francesi (Total, Bouygues, Casino, ecc.) che formano degli oligopoli e si accordano sui prezzi provocando di conseguenza il problema ricorrente della “caro vita”. Nella continuità dell’esclusività coloniale istituita da Colbert nel XVII sec. ,i dipartimenti d’oltremare costituiscono dunque mercati vincolati mascherati. Tutta la forza ideologica del sistema risiede nel fatto che esso si presenta sotto le sembianze di un dono della Francia, trasformando così gli “addomesticati” in eterni debitori di uno sviluppo fittizio e fuorviante.

MICROFASCISMO TROPICALE

Come un cattivo jinn, il desiderio di apartheid – il sogno patogeno di una comunità omogenea – possiede Mayotte: un’isola soffocata dal proprio confine dove schizofrenia e paranoia vanno a braccetto, e dove lo straniero viene cacciato, villaggio dopo villaggio, dal più profondo di sé stesso. La caccia all’uomo che si è svolta da gennaio a luglio 2016 non ha risparmiato le scuole dove da un giorno all’altro, senza preavviso, gli studenti sono scomparsi. A volte venivano trovati in Place de la République a Mamoudzou, addormentati per terra con la loro famiglia, senza nemmeno un pezzo di tela a proteggerli dalle intemperie e dagli sguardi affollati ai cancelli di questo accampamento senza nome. Non erano profughi ma espulsi dalla Repubblica: banditi dalla “convivenza”. Nelle scuole è apparso un nuovo gioco,“Mdzuani” (“Anjouanese”, abitante della principale isola delle Comorre, ndt)) che punge l’aria come un insulto e lascia tracce indelebili nelle anime e nei cuori vulnerabili dei bambini di Mayotte percepiti come “bambini maledetti”. “Comorian” era diventato da tempo un termine cancerogeno, sinonimo di “straniero” e quindi di “delinquente”: non si pronunciava più, si sputava addosso, soprattutto in onda! Come stupirsi allora di vedere un giorno milizie pseudo-cittadine che attraversano le strade alla ricerca di abitazioni “comoriane” da distruggere o saccheggiare…

Dall’altra parte dello specchio, al di là dei miraggi del “migrante” e della sete di esotismo del “mzungu” (“francese, bianco”), le lussureggianti colline di Mayotte racchiudono un vasto labirinto in cui si svolge stabilmente una caccia all’uomo all’aria aperta. L’umano perseguitato è il fratello, il cugino, la nonna dei “Mahorais”: viene dalle altre isole dell’arcipelago delle Comore. La novità di oggi è che la polizia ora condivide il monopolio del legittimo tracciamento con gruppi di residenti anonimi come i volantini nauseabondi che diffondono sulle reti e sui muri del 101° dipartimento. “Asphyxiated Mayotte”, questo è il titolo del volantino scaricabile dal 28 aprile 2016 sul sito Kwezi : “Domenica 15 maggio 2016 si svolgerà una manifestazione e un’azione pacifica di deportazione contro l’immigrazione clandestina. Punto di partenza: l’altopiano di Boueni, alle 6 del mattino. A seguito dell’azione vi sarà un grande Voulé [un barbecue festivo]. Che un’operazione di questo tipo possa aver luogo, nonostante sia stata annunciata con quasi tre settimane di anticipo, la dice lunga sulla banalizzazione di una certa xenofobia e sulla complicità dei media, degli eletti, delle autorità locali nella proliferazione, in gran parte dell’isola, di abusi commessi ai danni dei “comoriani”: vessazioni, insulti, percosse, saccheggi e incendi di abitazioni, minacce e intrusioni nelle abitazioni di persone che ospitano “dislocati”, ecc.

Ogni volta, queste “azioni di espulsione” assumevano la forma di un sinistro clamore dove il battito delle pentole contendeva con i canti e gli ululati vendicativi delle bouenis (“donne”). A Tsimkoura, dove tutto è iniziato a gennaio, quasi un centinaio di abitanti hanno proceduto a una perquisizione nel proprio comune vestiti “di rosso per riconoscersi” (Flash info, 19 gennaio), non riuscendo ad appuntare una stella gialla sul petto di un invasore “comoriano” tanto più infido in quanto indistinguibile da sé stessi: un nemico interno. Senza il clima di impunità che regnava a Mayotte, la caccia ai “Comoriani” non avrebbe potuto assumere tali proporzioni, come affermava costantemente il Maestro Ghaem, denunciando ” i municipi che accolgono apertamente questi collettivi di paesani, fotocopiando i loro volantini e organizzando attorno a essi dei “decasages” di auguri di festa” (Journal de Mayotte, 5 giugno). Allo stesso modo, come commenta La Cimade (Organizzazione di difesa dei migranti, ndt), la mancanza di reazione da parte della Gendarmeria e della Prefettura ”favorisce l’impunità di questi collettivi e offre loro la possibilità di sviluppare azioni illegali e xenofobe”  .

La cosa ancora più inquietante è che alcuni membri di queste milizie provenivano, secondo un informatore che ha preferito restare anonimo, dai “consigli cittadini” (Politique de la Ville). Fu così messa in atto una divisione “civica” del lavoro: ad una frazione radicalizzata della popolazione venne assegnata l’azione di espulsione e sgombero, alla Gendarmeria (con il pretesto di evitare scontri), alla PAF (Police de l’Air et des Frontières) il controllo dei documenti e la retata vera e propria. Data la sua efficacia, non ci sarebbe di che meravigliarsi se tale microfascismo tropicale sperimentato a Mayotte – questa comunione tra una piccola frangia di “cittadini” e la polizia nella comune caccia allo “straniero” – possa rimbalzare un giorno nella Francia metropolitana…

DISAGIO IN LAGUNA

“Sono nato a Mayotte, da madre anjouanese e padre Mayotte. (…) Siccome ai paesani del mio comune non piacciono gli “stranieri”, soprattutto gli “Anjouanesi”, per molto tempo mi sono vergognato di mia madre. Mi vergognavo di dire ai miei amici che sono anjouanese tramite mia madre. Ho nascosto loro questa verità, non volevo essere rifiutato a causa di questa origine. Fingevo di essere felice con questa verità nascosta nel profondo del mio cuore, ma mi sentivo solo. Non osavo mostrarmi in pubblico con mia madre. Quando mi parlava davanti alla gente, la ignoravo, come se fosse un’estranea.» È stato leggendo questo testo, scritto da una mia allieva, chiamiamola Amina, che mi sono resa davvero conto che i confini non condividono solo territori ma anche anime, rendendole spesso estranee a se stesse. L’osservazione di F. Fanon trova conferma: l’alienazione non può essere compresa dalla sola psiche dell’individuo poiché è la situazione (post)coloniale che la genera.

Ma sento già delle voci che gridano: “Smettila con la tua storia coloniale, tutto ciò è il passato! …” Certo, non c’è più alcun lavoro forzato, nessun codice di nazionalità, che viene sfruttato oggi nei dipartimenti d’oltremare (cfr. Le discours antillais, Slippery) è il consumo, il welfare agevolato dei “nativi”: popolazioni rese superflue il cui paesaggio si trasforma progressivamente in una riserva ecologica. Quindi l’asfissia evocata dai volantini che inneggiano alla caccia alle “Comoriani” è in realtà solo l’asfissia di una vita sociale, culturale ed economica che può sempre meno fare a meno dell’assistenza respiratoria della “madrepatria” francese. L’addomesticamento ha quindi l’effetto non solo di sterilizzare le iniziative, la produzione e l’economia locale, ma anche di svuotare gli “addomesticati” che, perdendo il loro saper fare, si trovano costretti a conservare un minimo di autostima per rifugiarsi nello sfarzo e nel “folklore”. Questa è la fase finale dell’assimilazione, una colonizzazione perfetta poiché fraintesa come tale e voluta dai “neocolonizzati”. In questa totale dipendenza – una tutela tanto insidiosa quanto invisibile e comoda – diventa sempre più difficile esprimere disaccordi nei confronti della Metropoli e dei suoi rappresentanti. Viene quindi avviato un processo di autocensura permanente, alimentato da una paura infantile primordiale: “I funzionari eletti mahoresi hanno paura dei prefetti che li trattano come mendicanti” ( Mayotte nella sub-Francia , Azihari) Non possiamo infatti mordere la mano che ci nutre: troppa paura di perdere ciò che hai già perso…

Il malessere di Mayotte è in parte radicato nel sentimento più o meno consapevole di espropriazione che i suoi abitanti provano nei confronti della propria immagine, della propria storia e del proprio futuro. Questo malessere è ben più profondo delle mille e una difficoltà economiche e sociali (disoccupazione abissale, sistema ospedaliero e scolastico sull’orlo dell’implosione, crescita esponenziale di furti e aggressioni, 85% della popolazione al di sotto della soglia di povertà) che si riscontrano in questo territorio. Un malessere indicibile, che colpisce il sentimento stesso dell’esistenza: “Non importa quanto rinnego i miei fratelli, non importa quanto sputo sulla loro merda indipendenza, non importa quanto alzo la bandiera francese e canto la Marsigliese, rimango invisibile agli occhi della Patria, al punto che spesso dubito della mia stessa realtà”. Mayotte soffre di non essere riconosciuta dalla metropoli lontana, anche se non vuole più riconoscersi nelle sue isole sorelle.

La principale fonte di malessere a Mayotte risiede quindi nella crescente repressione della “comorianness” di quest’isola. Una repressione che non avviene solo nella psiche degli individui, ma prima attraverso tecniche poliziesche di rastrellamento, internamento, espulsione. Oggi più che mai l’espulsione dei “corpi estranei” si presenta come il rimedio a tutti i mali della società mayottese. Il problema del rimosso è che continua a ripresentarsi sotto forma di violenza interna all’individuo che sta reprimendo: somatizzazioni, disturbi comportamentali, psicosi. Nel caso di Mayotte, questo ritorno del rimosso si esprime in particolare nella moltitudine sempre crescente di “minori non accompagnati”: bambini di strada e di bosco, figli del rifiuto che crescono, rabbia tra i denti, lontano dai loro genitori espulsi – figli condannati a una cittadinanza impossibile.

SWAHILIZZAZIONE: IL POTERE DELL’ARCIPELAGO DELLE RIVE

«Ieri sera hanno annunciato la morte di un mio

cugino rapito dall’onda travolto dalle onde

Non abbiamo gridato né pianto nemmeno una lacrima

nel cortile del recinto di famiglia (…)

Il mutismo di una madre che emerge dall’incantesimo

Volto lacerato dal peso delle vanterie ufficiali

sulle onde radio di una radio di quartiere Un annunciatore recita il lungo rosario delle vittime (…)

Dove sono i padri della nuova nazione nel fare

la notizia è dura novantotto nomi esagerati perirono tra le onde (…).

Corpo a corpo di destini sospesi su due fragili barchette di cianfrusaglie provenienti da Domoni si spensero al termine di una corsa frenetica tra i radar sovreccitati della punta nord e l’agitata flottiglia di Soroda.

Ho detto che mi bruciano e che mi consegnano cenere morta all’ombra del ventre disfatto.

Come questi resti di uomini che a migliaia annegano sotto la laguna al crepuscolo di un mattino nebbioso.

La negazione di ciò che abbiamo un giorno d’estate vive in noi permanentemente».

Un dhikri per i nostri morti. La rabbia tra i denti. Soeuf Elbadawi

Testimoniare l’innominabile è il primo atto di resistenza politica perché è poetico: la prima rivoluzione è quella del verbo! A questa “favola scritta dalla mano di un maestro” – “questa storia di migrazione selvaggia nella sua stessa terra” – l’artista Soeuf Elbadawi risponde con i controincantesimi di una poesia dall’oltretomba: Un dhikri per i nostri morti. La rabbia tra i denti. Un testo che spezza il non detto su tutte queste male-morti che infestano Mayotte e le altre isole dell’arcipelago. La storia di un uomo distrutto, infuriato per non poter seppellire i suoi morti e contemplare il lento naufragio di un arcipelago. “Fino a quando staremo a guardare coloro che affondano sott’acqua (…) senza opporre nulla all’Impensabile” si domanda. Decide quindi di organizzare una dahira (cerimonia funebre sufi) non solo per suo cugino ma anche per quelle migliaia di morti che nessuno nomina. Quando i morti vengono censurati e abbandonati al loro destino, quando non sono altro che numeri nelle tabelle statistiche o curve nei grafici, è la nostra stessa umanità ad essere chiamata in causa: la nostra capacità di riconoscerci nell’altro. I morti sono l’altro per eccellenza poiché sono già “nell di là”. Elbadawi contrappone la retorica disumanizzante del “flusso migratorio” al verbo creativo che offre un volto e una voce ai dannati del mare, testimoniando così la loro umanità e… la nostra. Di fronte alla banalità del male, alla più terribile delle censure, riscoprendo la capacità poetica di stupirsi, riscoprendo il senso dell’intollerabile. Portare alla luce lo scandalo che continuiamo a nascondere…

Prima di essere linee, i confini sono luoghi di vita in cui l’uomo si è sempre reinventato nutrendosi dell’estraneità del vicino. Come le barriere coralline, i confini respirano, vivono solo attraverso i loro pori, le loro asperità, le loro superfici traforate dove si produce il continuo intrecciarsi di mondi incommensurabili: un’ibridazione creativa. Fertilizzato dagli alisei e dai monsoni gli “swahil” (“rive”) incarnano il confine per eccellenza come luogo di vita, come spazio di pulsazione e simbiosi creativa. Il “dominante”, sia esso la politica di assimilazione dei Territori d’Oltremare o la cupola di sicurezza (la messa in rete e la risonanza dei dispositivi di cattura), è la negazione delle coste e del loro potere arcipelago. Chiediamo dunque nuove “swahilizzazioni”, nuove e furtive “derive”!

Dénètem Touam Bona