Campo rom di Podgorica, la Autobuska stanica di Sarajevo e altro

Per mentire bene, bisogna sempre dire un po’ di verità. A volte le informazioni più interessanti ci arrivano in modo indiretto e per canali differenti da quelli tradizionalmente utilizzati. Carlo Ginzburg ci ha insegnato che il tribunale dell’inquisizione può raccontarci ed aiutarci a capire ciò che vorrebbe estirpare e cancellare dalla memoria. Il problema è ricorrere a una sana critica delle fonti e far tesoro di quel metodo indiziario che permette di incunearsi negli equivoci meandri della dissimulazione, ricomponendo tasselli discordanti che devono ritrovare il loro possibile disegno (Ginzburg 1986: 158-209). Gli antropologi hanno esperienza di come spesso il silenzio, l’omissione, l’occultamento di una parte o la cosmesi di ciò che non si vuole raccontare con dettagli e responsabilità mettano in evidenza più delle risposte apparentemente esaustive. Il vero, il falso, il finto sono sempre voci da soppesare e da leggere con estrema attenzione. Oltre tutto, in questo panorama di gente in viaggio, di attori multipli, internazionali, nazionali e locali la costruzione dell’altro è una pratica sistematica che produce opportunismi inanellati difficili da districare e, soprattutto, interiorizzati e costantemente rigiocati. Siamo di fronte a un caleidoscopio di finzioni: il poverino da aiutare che permette al pio o giusto di sentirsi buono o perlomeno meno responsabile; il viaggiatore ridotto a minore di un qualche servizio assistenziale; la persona disciolta nell’immagine del migrante; lo straniero untore necessario, come capro, a un disagio sociale o alla campagna elettorale di qualche imbonitore; il presunto invasore che fugge da terra militarmente da noi invasa. Lo scenario è pertanto abbastanza teatrale, potrebbe essere una commedia dell’assurdo.