Il campo di Lipa viene aperto a marzo 2020 per far fronte alla pandemia ma da subito è evidente l’inadeguatezza della sistemazione. Il 9 dicembre l’OIM ne annuncia la chiusura dopo i ripetuti appelli alle autorità locali per la fornitura di servizi di base, rimasti inascoltati. Chiede inoltre la riapertura del Centro Bira – uno dei sette centri “temporanei” finanziati dall’UE e gestiti da OIM in Bosnia – in Bihać, chiuso in settembre dalle autorità locali. La decisione sarà prorogata per diversi giorni, fino al 23 dicembre quando scoppia un furioso incendio.  

Seguono rimbalzi di responsabilità, scontri tra OIM e istituzioni bosniache, accuse incrociate, decisioni a livello centrale smentite dalle autorità locali, appelli indignati, lettere durissime di diversi rappresentanti delle istituzioni europee. Intanto la situazione dei migranti nella neve e nel freddo è drammatica.

Si tenta un temporaneo trasferimento nell’ex base militare di Bradina, vicino a Konjic, ma i 700 migranti evacuati da Lipa non riescono a raggiungere la vecchia caserma perché la popolazione locale vi si oppone. Passano la notte in pullman.

il 31 dicembre il Ministro della Difesa della Bosnia Erzegovina annuncia che i migranti rimarranno a Lipa, e che l’esercito allestirà delle tende. Infatti il giorno successivo l’Unità del Comando Logistico e tre Brigate di fanteria si muovono verso Lipa e iniziano a installare tende militari per i migranti. La Presidenza tripartita del Paese approva.

È su questa scelta che desideriamo soffermarci, sul suo significato. Un recente articolo riguardante una soluzione analoga adottata in Danimarca nel 2016 offre chiavi di lettura e categorie di analisi che si possono applicare proficuamente anche al caso di Lipa.

Innanzitutto la sistemazione in tende plasma la vita quotidiana rendendola ulteriormente stressante, incerta, frustrante. E’ una sistemazione inospitale e ostile. Una “infrastruttura della deterrenza”.

Un campo con tende è una struttura militare, ricorda missioni di guerra, è mobile e temporaneo.

Se con queste strutture si pensa di dissuadere le persone a spostarsi, confidando nel fatto che coloro i quali si trovano a vivere in tali condizioni – o a vagare negli squat o nei boschi circostanti – racconteranno la situazione ai loro amici e parenti che vogliono intraprendere lo stesso viaggio, si sbaglia.

“L’effetto di queste infrastrutture non è la deterrenza, ma l’umiliazione, che non si racconta”.

Zachary Whyte, Rebecca Campbell, Heidi Overgaard, Paradoxical infrastructures of asylum: Notes on the rise and fall of tent camps in Denmark, Migration Studies, Volume 8, Issue 2, June 2020, Pages 143–160,