Quali sono le conseguenze degli enormi investimenti del dopoguerra che determinarono la nascita di tante ong? Quale impatto hanno avuto sulla società bosniaca? Già all’indomani degli accordi di Dayton si sviluppò un ampio dibattito sugli effetti distorsivi e di sostituzione ai servizi pubblici (Duffield, 1996,2001) da parte dei “progetti” internazionali, e col tempo a questi elementi che hanno strutturato la società bosniaca del dopoguerra altri se ne sono aggiunti. 

Un problema che determina le caratteristiche e le debolezze della società civile bosniaca oggi è che gran parte della prima grande ondata di ong del dopoguerra è stata avviata e finanziata da sponsor esterni e una volta che hanno ridotto o tagliato il loro sostegno molte di queste organizzazioni sono crollate o stanno lottando per sopravvivere formalmente. “La Bosnia ha 25.000 Ong registrate sulla carta la cui metà sono “partiti politici di seconda mano”, sostengono le attiviste della fondazione Cure di Sarajevo.

Quando si presentano nuovi problemi, come per esempio la crisi dei rifugiati, nascono nuove associazioni e quelle vecchie restano penalizzate. C’è un problema legato ai fondi e alle pratiche, ai bisogni e alle donazioni per cui la gente preferisce cambiare la ragione della propria Ong. Per avere nuovi fondi o ti adatti o non puoi sopravvivere.

Gran parte delle realtà associative infatti dipende finanziariamente e organizzativamente dal sostegno esterno, non sono un prodotto dell’azione sociale interna, piuttosto arrancano nel “projectariat”, secondo l’efficace espressione di Catherine Baker. Le associazioni dei più importanti centri urbani che hanno un’organizzazione e le competenze  idonee ad accedere ai bandi europei e a generosi donors internazionali sono distanti dalle piccole e diffuse realtà locali, rurali e spopolate, per le quali l’empowerment e l’advocacy rischiano di essere soltanto un lessico obbligato per accedere a risorse, una retorica alla quale piegarsi, lontana dai bisogni determinati dalla deprivazione materiale e dall’assenza di servizi fondamentali (trasporti, medici, accesso all’acqua potabile…). 

Il secondo problema è che molti gruppi hanno un impatto ridotto tra le varie entità. Le attività delle ong della Republika Srbska rimangono quasi esclusivamente limitate a questa sola entità, mentre i gruppi della società civile nella Federazione hanno scarsa presenza o impatto visibile nella Republika Srpska. I partiti dominanti hanno una forte influenza anche sulle organizzazioni della società civile, cosicché il profondo divario istituzionale rende difficile la costruzione di un’identificazione civica nella Bosnia-Erzegovina intesa come stato unitario (Malešević, 2013).

Ci sono diversi tentativi, come quelli da parte di associazioni di donne, organizzazioni di pensionati, intellettuali indipendenti, gruppi ecologisti, giovani artisti di affrontare i problemi comuni, tuttavia l’ostacolo principale rimane l’attuale struttura statale che rafforza le divisioni etnonazionali.

Tutte le statistiche disponibili dicono chiaramente che le donne hanno pagato di più la cosiddetta “transizione”, soprattutto lo smantellamento dei dispositivi di protezione sociale dopo la guerra degli anni ’90 e la ritradizionalizzazione della società. Tuttavia molte donne si sono attivate, esplorando altre traiettorie femministe (Cîrstocea, 2019), magari inventando nuove attività economiche, con iniziative nei settori privato e pubblico, con pratiche diverse ma con una comune vitalità, che in molti casi riesce a valorizzare le esperienze locali.

Dice Aldina Aličić Hasičić presidente dell’associazione Sigurno Mjesto di Zavidovići

le piccole associazioni non hanno grande visibilità, sono costrette a unirsi con le grandi organizzazioni. Le donne che sono rimaste qui sono rimaste per lottare per un altro futuro dei figli, per aiutare la società locale per quanto possono, le donne lottano formando organizzazioni non governative. Spesso c’è incomprensione da parte della società, quando le donne si incontrano nelle loro organizzazioni, “queste che cosa fanno? Bevono caffè e chiacchierano”, ma alle donne serve anche il riposo. L’associazione è una forma di psicoterapia, di riattivazione delle energie.

In tanti anni del nostro “starci” abbiamo osservato che il lavoro delle donne ha cercato di trascendere le spartizioni nazionalistiche di una organizzazione statale che rinforza la divisione. E ha prodotto movimenti nei quali anche la sfera privata, le economie di autoconsumo e di sopravvivenza hanno un potenziale “politico” di sviluppo di una cultura della cura e della manutenzione di territori fragili. (Majstorović, 2011).