Il titolo italiano del romanzo di Jenny Erpenbeck ci pare appropriato per descrivere le moltissime voci di migrazione che è facile ascoltare nelle strade di Bosnia, oggi.

Sono storie simili, che si tratti di giovani madri rimaste a casa con le figlie e i figli e il marito in Slovenia o Croazia, pendolare che rientra nei fine settimana o una volta al mese, o di figli che lavorano all’estero, in Svezia, Germania, Austria, Lussemburgo, in nero, in grigio, per il periodo di un visto turistico, o regolarmente assunti attraverso reti e agenzie che reclutano manodopera.

I racconti, diretti o indiretti, testimoniano lo svuotamento del paese e le assenze. Le case, tante nuove e disabitate, testimoniano i legami che si mantengono, gli investimenti in vista di un ritorno periodico o in un futuro indefinito.

La migrazione è la soluzione dicono in molti dopo aver atteso e sperato nella “transizione”, se ne vanno anche persone non più giovani, con la famiglia e un bagaglio di competenze. Molti genitori sostengono la scelta migratoria dei figli e delle figlie, per studio, per lavoro, per ricongiungimento, delineando una società sempre più anziana che dipende dalle rimesse.

Due ragazze chiacchierano verso sera accanto alla loro auto parcheggiata in un punto panoramico della città di Zenica, famosa per l’acciaieria – oggi privatizzata alla Mittal – e per i suoi veleni che escono dalle ciminiere, si diffondono nell’aria, nella terra e nelle acque. Ci lavoravano ventimila operai, oggi ne restano circa duemila, la maggior parte dei quali proviene dalle cittadine vicine. Le ragazze sono allegre e curiose, raccontano di aver conseguito il diploma di infermieristica e che tra qualche mese andranno insieme a Monaco di Baviera, una per lavorare come infermiera, l’altra per seguire i corsi universitari di Medicina. E quando il sole tramonta, si affrettano al corso di tedesco, pensa a tutto un’agenzia intermediaria.

Le giovani generazioni bosniache non hanno vissuto la guerra ma il dopoguerra che ha plasmato una società divisa, un nazionalismo istituzionalizzato, dato per scontato, diventato routine, banale. Si sono formate e hanno socializzato in scuole separate. Tra reti che legano e scuola che divide, la prospettiva dell’altrove è un’alternativa.

In questo panorama sociale le voci di chi ritorna sembrano dissonanti. Qualche giovane che ha studiato all’estero scommette sull’impegno culturale e nell’attivismo, alcuni che hanno fatto esperienze lavorative in altri paesi avviano attività imprenditoriali transnazionali, incentivati da una legislazione molto favorevole al business.

Altri ancora, di diverse età e esperienze, trovano un’opportunità lavorativa nei Temporary Reception Centres. La Bosnia infatti continua ad essere regione di transito e attore delle politiche di “gestione” e controllo delle migrazioni, paese lasciato dai suoi cittadini e attraversato da quanti passano lungo la “rotta balcanica”.

Benché all’inizio del 2023 la situazione dei centri sia caratterizzata da una netta diminuzione delle presenze, e i cammini, molto più rapidi rispetto al passato abbiano preso altre direzioni, c’è tuttavia chi resta bloccato. Abdul, partito dalla Tunisia nel 2019 e arrivato a Istanbul in aereo, ha attraversato la Grecia, l’Albania, poi da Tirana è passato in Montenegro, e infine è giunto in Bosnia, adoperando mappe che non sempre erano utilizzabili nei boschi. Si è perso più volte. Ha imparato l’inglese in viaggio, è una buona cosa, così potrò parlarlo ovunque. Nel frattempo, fermo da due anni, ha fatto richiesta di asilo, ma sono pochissime le persone che ottengono protezione internazionale in BosniaErzegovina, appena sette persone dal 2018 su quasi 3.000 domande.

O le due persone provenienti dalla Russia. Non si conoscevano prima di essersi ritrovate nello stesso campo. Lui viene da Mosca, lei da San Pietroburgo. Non sono oppositori politici né disertori o migranti economici, ma hanno qualcosa in comune che li ha spinti a lasciare il loro paese: sono entrambi gay.

Lei, una donna di mezz’età, ha visto la sua vita andare a rotoli quando suo fratello l’ha rapita e portata in un centro di rieducazione da cui è riuscita a fuggire. Ha preso un aereo per Belgrado e da lì è passata in Bosnia dove è rimasta bloccata senza poter procedere oltre. L’assenza di prospettive l’ha duramente segnata. Accende una sigaretta dopo l’altra e prende regolarmente psicofarmaci per gestire l’ansia, non riesce a trovare la forza di intraprendere the game e attraversare a piedi la frontiera montuosa con la Croazia e quindi affrontare il lungo viaggio da clandestina per le strade dell’UE. Come se non bastasse teme che suo fratello la possa ritrovare. Non vuole che la si fotografi e non dice il suo vero nome.

Lui invece è un giovane trentenne che ha rotto con la sua famiglia e ha vagato a lungo per la Russia fin quando ha deciso di lasciare il paese. È molto inquieto, lo stress lo sta divorando. Da quando è in Bosnia ha capito che non c’è modo di procedere oltre. Il viaggio si ferma lì. Il suo sogno è andare negli States. Ci dice che è pronto a tutto pur di raggiungere il suo obiettivo, ma il suo volto non riesce a nascondere la grande disillusione e la paura di non riuscire. Si esprime con un linguaggio carico di rabbia e frustrazione. Inoltre al di là dell’oceano non c’è nessuno che lo aspetta, che lo può aiutare. È solo e lo sa.

Entrambi sono fortunati, il campo è pieno solo per metà. Gli spazi sono confortevoli, non ci sono resse per mangiare o per andare in bagno. Le abitazioni non sono sovraffollate e si può anche prendere un tè con calma. In altri periodi il centro è stato al di là della capacità di accoglienza. Tutto risultava difficile e anche glioperatori non erano così disponibili nel gestire la situazione. Per loro due, provenienti da un ambiente borghese e benestante, questa situazione li aiuta a non affondare, anche se sanno che tutto potrebbe cambiare nel corso di qualche mese e ritrovarsi pressati all’interno di una massa di esseri umani vinti dalla fatica e dalla disperazione.

Grazie all’intervento di due organizzazioni LGBT in Europa, siamo riusciti a permettere alla donna russa di raggiungere la sua compagna e ad ottenere un visto umanitario. Per lui invece non resta altra soluzione che incamminarsi verso il confine e affrontare, se ne ha la forza, il lungo cammino di attraversamento delle frontiere e la clandestinità tra le città europee.

È difficile non provare amarezza, assieme alla gioia, per la paradossalità di questa situazione che per l’una vede uno sbocco, una possibilità di fuoriuscita dal limbo del campo e per l’altro l’impossibilità. Tutto si gioca sul fatto di avere o non avere qualcuno dall’altra parte del confine, trovare il sostegno politico sufficientemente forte nel paese dove si vuole arrivare, incontrare la persona giusta al momento giusto, forse anche essere uomo o donna. Essere fortunato o meno. Essere simpatico o risultare una persona difficile da avvicinare. Stimolare empatia o meno in chi ti ascolta.

Non sul diritto, ma su elementi dettati dal caso e sull’imponderabile si gioca spesso il futuro e la vita delle persone in cammino lungo i confini con l’Europa.